Testimonianza di una caregiver: Angela

Angela socia AIMA figlia di Luciana

Angela, figlia di Luciana

Che mondo ti si è aperto con la diagnosi?

All’inizio, quando a mia madre è stato diagnosticato l’Alzheimer, ero molto spaventata e angosciata: ho pensato di aver perso la libertà e che non avrei mai più potuto occuparmi come volevo della mia famiglia. E ho pensato che, essendo figlia unica, mi sarei dovuta dedicare esclusivamente a lei. Mi chiedevo “ora cosa faccio?”. Dovevo capire come agire, come comportarmi.

Per un anno dopo la diagnosi mi sono annullata: non mi interessava più nulla, non vivevo più. I miei familiari mi dicevano che dovevo fare qualcosa, perché non riuscivo più a parlare d’altro. Mia cognata mi aveva consigliato di portare mia madre al Centro Diurno ma io non riuscivo, al solo pensiero iniziavo a singhiozzare.

Le mie figlie e mio marito sono stati bravissimi. All’inizio io ero ingestibile. Io, non mia madre. Ero insopportabile: parlavo solo di lei, perché cercavo un aiuto, anche concreto, ma non sapevo dove trovarlo.

In che modo sei entrata in contatto con AIMA?

La prima volta è stato tramite mia cognata, che mi aveva portato il libro a fumetti “Rughe” di Paco Roca. Io però non l’ho letto: non riuscivo perché mi sembrava di buttarmi addosso ancora più dolore. Poi, dopo un anno circa, ho visto che c’erano tre serate informative in zona, di cui una a Gualtieri in cui doveva parlare il mio medico di base: quando ho visto che c’era lui ho deciso di andare. Quella sera c’era la proiezione del documentario “Tempo Vero” di Daniele Segre e io ho sentito che dentro di me ha cominciato a cambiare qualcosa. Quando ho visto “Tempo Vero” per me è scattata una molla, perché ho visto nel video queste persone che facevano cose normalissime ma col sorriso: tutti i giorni vivevano la loro vita. Io invece avevo incastrato mia madre nella nostra vita, ma volevo fare tutto da sola e lo vivevo malissimo. Allora ho deciso di andare alla seconda serata a Reggiolo, in cui ha parlato il dottor Chattat: quella sera si è alzata in mezzo a tutti una ragazza che ha raccontato a persone che non conosceva che sua mamma era appena entrata in struttura, che lei stava male, ma che pensava di aver fatto la cosa giusta. Il vedere quella ragazza parlare così in pubblico mi ha colpita, mi ha aperto delle prospettive.

Aima ti ha aiutato? In che modo?

Entrare in contatto con l’associazione, con gli altri familiari e le altre persone malate, mi ha cambiato la vita. Ero preoccupata dal “che cosa” potevo o dovevo fare. Poi ho capito che il passo più importante da compiere era “accettare”. Cosa fare e come farlo sono questioni affrontabili, una volta che si è accettata la malattia. L’associazione è stata la risposta a tanti miei problemi: frequentando altri familiari e operatori arrivano anche le risposte più concrete. Per esempio, impari ad apparecchiare la tavola solo con la posata adatta al cibo, in modo da non doverle togliere la forchetta per mangiare il minestrone. Penso che AIMA mi abbia accompagnata nel percorso di accettazione della malattia e mi abbia aiutata a fare lo scatto decisivo: grazie a questo scatto ho capito che potevo vivere ancora, che dovevo farlo. Il mio percorso è stato quello di avvicinarmi al Centro di Ascolto, di cominciare a parlare con lo psicologo, per poi cominciare a frequentare il Caffè Incontro di Reggiolo. Non è stato facile: devi essere tu molto aperto, sei tu che devi lavorare sulle parole che ti dicono, sulle esperienze degli altri.

In che modo ti vedi cambiata o vedi cambiata la tua famiglia?

Io di fronte ai consigli non ho mai pensato “questa cosa non la posso fare, con mia madre non va bene”: ho sempre detto “ci proviamo”. Internet non è sufficiente. Io ho letto tantissimo online ma non ho trovato i consigli pratici che mi ha dato l’associazione. Su Internet ci sono molte esperienze su “come te ne sei accorto”, su come si è arrivati alla diagnosi, perché è la prima domanda che si fa, ma non si trova molto altro.

Ma è quella prima, quella dell’accettazione, la fase più difficile. Se accetti che si può vivere con la malattia, dopo tutto diventa più facile. Prima per me era tutto buio, era un tunnel: la luce la vedevo dietro e il buio era davanti. Dopo ho capito che devi convivere con la malattia e cercare di coinvolgere i familiari. Loro mi hanno aiutata moltissimo e io ho capito che c’è un tempo per tutte le cose: se io avessi messo in struttura mia madre dopo tre mesi avrei sbagliato tutto, perché c’è un tempo di maturazione. All’inizio mi chiedevo anche: “come faccio a portare una badante in casa? Mia madre era una persona con così tanta cultura…”. Lei era stato il “Google” della famiglia, il punto di riferimento per me e le mie figlie. Era sempre stata molto curiosa e sempre “avanti” in tutte le cose: era insegnante quando c’era il vecchio metodo di insegnamento ed era una persona che sperimentava molto. Poi, quando è arrivato il momento, quando siamo stati pronti, la badante è entrata a far parte della nostra vita e così le altre cose che sono venute poi e anche in questo i miei familiari mi hanno aiutato perché hanno rispettato i miei tempi.

Uscivi di casa con tua madre?

Luciana mamma di Angela mentre balla con il maritoIo, finché è stato possibile, ho portato mia madre dappertutto: cercavo di coinvolgerla in spettacoli a teatro, cose semplici che potessero incuriosirla. A Boretto per esempio portavo mia mamma e la badante all’operetta e l’’ultima volta batteva le mani e tutto il teatro con lei. La vita è una, se ci chiudiamo in casa… io voglio vivere! Se non accetti la malattia non vivi più e non fai vivere il malato. E nemmeno gli altri che ti sono vicino. Nella gente c’è la paura di stare vicino alle persone malate, perfino di toccarle. Mentre io penso che anche se non parlano più, ci sono altri modi di comunicare con loro. Ad esempio, adesso mia mamma cammina a passo di musica: non è un passo normale, ma come un passo di danza. Il dottor Alberti dice che “ha questo ritmo addosso”. Noi in famiglia abbiamo sfruttato molto la musica e il ballo per comunicare con lei. Da giovane io non l’avevo mai vista ballare o cantare: mi aveva sempre detto “sono stonata come una campana”. Ho delle fotografie di lei mentre balla con mio padre, ma io non l’avevo mai vista dal vivo. Quando abbiamo capito che le piaceva così tanto, a casa le abbiamo fatto i cd con musica del suo tempo: avevamo coinvolto anche la badante che ballava con lei. Adesso, appena muovo le spalle, anche lei si muove a passo di danza.

Luciana, mamma di Angela, mentre balla con il marito